Le Storie

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Si può creare un chatbot “con il cuore”?

Negli ultimi anni i chatbot, gli interlocutori virtuali diventati indispensabili nel customer care, si sono evoluti nettamente, diventando sempre più efficaci nel compito di fornire informazioni e supporto ai clienti. Ma a questo exploit da un punto di vista funzionale è possibile far corrispondere anche un’evoluzione “emotiva”? Insomma, è possibile ipotizzare dei chatbot “scritti con il cuore”?

Ne ho parlato con Andrea Fattori, co-fondatore di Gruppo Orange, web agency specializzata nella realizzazione di chatbot, e di Link&Lead, startup (di cui ho già raccontato qui) che mira a trasformare i dipendenti in brand ambassador tramite la gamification.

Partiamo dalle basi: quali sono gli usi più comuni dei chatbot?
L’uso più comune è per i servizi di assistenza alla clientela. I chatbot funzionano tanto meglio, quanto più è circoscritto l’ambito in cui devono operare. Per esempio, un chatbot specifico per gestire la restituzione dei prodotti avrà un livello di comprensione molto superiore rispetto a uno generico che serve sia come guida all’acquisto che per le problematiche generali.

chatbot

Tralasciando la componente tecnica, quali sono i passaggi più “di contenuto” nella creazione di un chatbot?
Questa è una distinzione molto importante, anche perché di solito la parte tecnica viene demandata a piattaforme preesistenti, dato che si tratta di un lavoro molto complesso. La parte importante è proprio quella di “costruzione del dialogo”. È fondamentale, nella programmazione semantica del chatbot, avere chiaro quali saranno le domande principali a cui dovrà rispondere. Per questo motivo, se esiste, uno storico delle interazioni del customer care è molto importante per capire quali sono le domande che generano maggiore traffico. Ci sono casi, piuttosto frequenti, in cui nel supporto alla clientela le due o tre domande principali fanno più del 50% del traffico complessivo. Se già solo il chatbot riesce a rispondere a queste domande, permette di alleggerire tantissimo il lavoro del personale addetto al customer care.

Quindi anche per i chatbot vale il criterio della specializzazione…
È inutile cercare di creare un chatbot che risponda a tutto. Anche perché gli utenti sono in grado di creare domande assolutamente imprevedibili, per cui nella fase in cui ancora siamo oggi il chatbot non riuscirebbe a rispondere. Quindi bisogna lavorare sulle percentuali di domande più significative.

I chatbot funzionano tanto meglio, quanto più è circoscritto l’ambito in cui devono operare

Individuate le domande, qual è il passaggio successivo?
Bisogna insegnare al chatbot come distinguere una domanda dall’altra. A seconda delle piattaforme che si usano, questa procedura si può basare o su keyword (cioè la presenza in una domanda di una determinata parola chiave, che però funziona quando ci sono termini interpretabili in maniera univoca) o sulle frasi intere. A seconda delle piattaforme, c’è una capacità di comprendere frasi più o meno complesse e anche di aumentare con il tempo questa capacità di comprensione.

Risolto il problema della funzionalità, come si lavora per creare un chatbot che risulti anche “simpatico”?
Una volta individuati gli argomenti chiave, è importante creare un’esperienza d’uso che sia piacevole. È fastidioso imbattersi in un chatbot non solo freddo, ma anche quasi scortese, troppo secco nelle sue risposte. Quindi bisogna lavorare su queste risposte affinché risultino gradevoli dal punto di vista dell’utente. E per le domande più frequenti è importante creare più risposte differenti nella forma, che dicano però la stessa cosa, così da offrire una varietà e non dare un’idea eccessiva di standardizzazione.

cute chatbot

Quindi creare chatbot più umani è possibile…
Attenzione, però, perché un errore consiste nel cercare di spacciare un chatbot per un umano. Inevitabilmente si finisce per fare una brutta figura, perché le sue capacità di risposta e comprensione sono limitate. Quindi bisogna essere molto chiari sin da subito. Nonostante questo, è fondamentale cercare di rendere la conversazione più “umana” e realistica possibile.

A questo proposito, come si lavora sulla fluidità del discorso?
Innanzitutto è utile cercare di ramificare le conversazioni del chatbot. Quindi, invece di cercare di dare subito una risposta secca a qualsiasi richiesta, che è molto difficile, è sempre molto utile che il chatbot sviluppi il discorso con una serie di domande successive. In questo modo il discorso viene portato avanti in maniera più fluida, coinvolgente e anche efficace. Più si riesce a far sì che sia l’assistente virtuale a governare la conservazione, suggerendo delle opzioni, e più la conversazione stessa funziona.

Un errore consiste nel cercare di spacciare un chatbot per un umano, perché le sue capacità di risposta e comprensione sono limitate. Quindi bisogna essere molto chiari in proposito sin da subito.

Nonostante i miglioramenti, come mai c’è ancora una certa diffidenza nei confronti dei chatbot?
In realtà questo non è più tanto vero. Ad esempio un paio di anni fa in una ricerca di PWC con una platea abbastanza ampia, circa il 60% degli intervistati ha dichiarato di preferire l’interazione con un chatbot, perché viene meno l’idea di essere giudicati e ci si sente liberi anche di fare domande banali. Però è vero che non tutti la pensano così. C’è comunque la percezione, in parte anche corretta, che se tu hai un problema molto specifico, il chatbot non ti aiuterà a risolverlo.

La soluzione?
I sistemi migliori integrano chatbot e live chat. Quindi il chatbot dà una prima linea di risposte su problematiche generiche. Già se riesce a rispondere a quel 50% di domande che sono sempre le stesse (l’esempio, nell’IT, è rappresentato da quelle domande la cui risposta è molto spesso il classico “Spegni e riaccendi il computer”), toglie un bel carico di lavoro al customer care. Però poi quando c’è la domanda specifica, il chatbot deve poter passare la comunicazione a un utente umano.

Più si riesce a far sì che sia il chatbot a governare la conservazione, più la conversazione risulta fluida, naturale e funzionale

Negli ultimissimi anni cosa ha fatto fare il salto di qualità ai chatbot?
Il miglioramento della comprensione naturale del linguaggio. I primi chatbot avevano bisogno, nelle domande, di una corrispondenza esatta con frasi specifiche, per le quali bisognava prevedere tutte le variazioni. Adesso invece la comprensione si è molto evoluta. Una cosa molto importante: la programmazione del chatbot prima della messa online costituisce solo una parte del lavoro. Ma è molto importante la verifica continuativa. Chi sviluppa il chatbot verifica cosa viene chiesto al chatbot e cosa questo risponde. Dove serve si va a intervenire. Anche quando non hanno saputo rispondere a domande che gli sono state poste, i chatbot più evoluti “intuiscono” la risposta corretta e te la suggeriscono, al che tu confermi o meno. In questo modo il chatbot acquisisce una competenza sempre superiore.

robot con il cuore

Cosa potrebbe costituire un altro consistente passo avanti?
Attraverso sistemi che utilizzano il machine learning, la comprensione degli assistenti virtuali crescerà ulteriormente col tempo. E questa sarà la cosa fondamentale. Affinché questo avvenga, è necessario però avere un database ampio. Se il chatbot è solo quello del mio sito, la crescita sarà molto limitata. Nel caso di un assistente vocale come Alexa di Amazon, invece, le domande sono dei milioni di persone che lo utilizzano, per cui la velocità e i margini di miglioramento saranno nettamente superiori.

In cosa si possono oggi come oggi migliorare i chatbot dal punto di vista emotivo?
Una tendenza che prenderà sempre più piede è quella dei chatbot vocali. Con gli smartphone e gli assistenti domestici ci stiamo sempre più abituando a questa modalità di interazione. L’interfaccia vocale diventerà un elemento fondamentale per tutti i tipi di dispositivi. Oltre a questo, vengono fatti tanti tentativi, come ad esempio la creazione di avatar “parlanti”. A mio avviso questi tentativi rischiano, al contrario, di rendere ancora più finto il risultato. Bisogna invece lavorare sulla componente semantica, per far sì che i discorsi siano fluidi e lineari. Bisogna anche adattare il linguaggio al contesto: un sito dedicato ai giovani deve avere un linguaggio diverso dal sito di una banca.

I chatbot possono imparare a “capire” gli utenti?
Nelle piattaforme si sta sviluppando il tentativo di rendere i chatbot capaci di comprendere il contesto emotivo del discorso. Per permettergli ad esempio di capire se si ha a che fare con un utente scontento, con un utente che ha fretta o magari con un utente più disponibile a esplorare. Questo discernimento permette poi di dare risposte diverse e più appropriate.

Nelle piattaforme si sta sviluppando il tentativo di rendere i chatbot capaci di comprendere il contesto emotivo del discorso. Questo discernimento permette poi di dare risposte diverse e più appropriate.

I chatbot potrebbero diventare in grado di cogliere anche i toni di voce?
Si tratta di una cosa ancora distante, ma credo di sì.

Sarà mai così gradevole chiacchierare con un assistente virtuale, da pensare a dei chatbot “da conversazione”?
Assolutamente sì, secondo me nel giro di dieci anni inizieremo ad arrivare a quel livello.